Da pochi giorni sono tornata alla solita vita e già realizzo che, più delle vacanze in sè, mi manca Londra, la sua vita, i suoi posti.
Avevo già pensato praticamente appena tornata di postare qui sul blog un resoconto di Londra, un incrocio fra una guida molto ma mooolto diluita e limitata alle cose che ho visto e un diario di bordo delle mie impressioni nella capitale britannica.
Beh, visto che stasera sono a casa mi accingo quindi a realizzare i miei propositi, sperando che qualcuno dei quattro gatti che frequentano il mio blog possa apprezzare.
Arrivare a Londra, soprattutto se provenienti da una cittadina di provincia come me, può essere traumatico: un paese dove non parlano la tua lingua, non c'è l'euro e soprattutto una città tanto grande e tanto popolosa già di per sè sono elementi a sufficienza per creare inquietudine. Se ci aggiungiamo il fatto che spesso e volentieri gli italiani all'estero sono un pochettino (concedetemelo su che è vero) incapaci e che la vita là è carissima e ci se ne accorge subito, beh, le cose si complicano.
Se come me si arriva all'aereoporto di Luton, disante qualcosina più di un'ora da Londra, la prima cosa da fare è cercare un mezzo di trasporto per giungere a destinazione. L'aereoporto non è grandissimo ma ha già tutti i requisiti per soddisfare un inglese doc: è funzionale, è efficiente e ha tanti negozi dove sono reperibili i mai troppo diffusi trogolai mangerecci (non vi fate ingannare dall'apparenza salubre, anche i cibi più morigerati sono avvolti nella plastica che nasconde due dita buone di maionese e il malefico curry).
Un "forestiero" qualsiasi, specie se italiano, noterà che manca una cosa abbastanza importante: un banchino di info turistiche (sì, ce n'è uno, ma è riservato alla prenotazione di ostelli o alberghi).Così ci si trova davanti mille banchini di altrettante società di trasporti (via treno o via bus) che si offrono di portarti a Londra. Il prezzo di un viaggio (solo andata Luton-Londra) si aggira fra i 12 e i 15 £. Quale sia la convenienza di una società puttosto che di un'altra o di un treno piuttosto che di un pullman non mi è riuscito capirlo, anche perchè io, da brava italiana, ho fatto quello che la maggior parte dei miei conazionali fa appena arrivati in un paese straniero: stanno tutti compatti e tendono a seguire come un branco di pecorelle smarrite quelli che parlano la loro stessa lingua: così abbiamo fatto noi "seguendo" una coppia bergamasca e così ha fatto la famiglia veronese che ha seguito noi.
Con 12£ e un'ora di viaggio dunque il pullman (il nostro come le altre mille linee di pullman) ci ha scaricato con due valigiozzi belli pesanti alla Victoria Station, nel bel mezzo del casino e dell'andirivieni frettoloso di centinaia fra turisti, oriundi e chissà che altro, arrivederci e grazie alè alè.
Dove andare? Cosa fare? anche se prima della partenza mi ero già documentata su cose che è sempre bene avere in testa PRIMA di arrivare: l'indirizzo dell'albergo, la sua ubicazione, i mezzi di trasporto con cui è possibile giungerci nel minor tempo possibile, dove comprare i biglietti per i mezzi pubblici e l'esistenza o meno di una carta-abbonamento che faccia sconti turistici, la sensazione di smarrimento è forte, anche perché, e questa è una costante di Londra, le indicazioni sono spesso insufficienti e talvolta contrastanti.
Dopo una mezz'ora a girare per l'isolato con i valigioni pesanti, Loris che bestemmia dietro di me e un caldo afoso da morire (eh già, perchè io, memore dei miei viaggi estivi a Berlino prima e in Irlanda poi, mi ero premunita e avevo avvisato anche Loris di portarsi roba pesante che fa freddo, col risultato che ci troviamo vestiti quasi come Totò e Peppino quando arrivano a Milano mentre la temperatura a Londra supera i 30 gradi con qualcosa come 70% di umidità)dopo aver finalmente sfoderato il mio inglese (fortunatamente di livello abbastanza buono) riesco ad arrivare al banco delle informazioni turistiche e a uscirne vittoriosa con in mano le chiavi del mondo: due Oyster cards (vale a dire carte ricaricabili valide una settimana che ci permettono di viaggiare su bus e metro delle aree 1 e 2, ovvero il centro di Londra e la sua immedata periferia, quante volte vogliamo, 24h su 24.
E qui il nostro primo incontro/scontro con la metro. Per me, ovviamente, è stato subito amore. (spero in un prossimo post di poter approfondire l'argomento metro).
La stazione più vicina all'albergo è Earls Court. Per 6 dei 10 giorni di permanenza a Londra impieghiamo 10 minuti a piedi a giungere la stazione, facendo l'intero giro dell'isolato, per poi scoprire che la stazione ha un'uscita sul retro che sbuca praticamente a 50 m dal nostro albergo...
La scelta dell'alloggio si è rivelata giusta: pur essendo un albergo senza pretese, con una cameretta di 3 metri quadrati, un armadio per aprire il quale è necessario spostare i letti e la totale assenza dello spazzolino del WC (assenza che, a quanto pare, è un po' il leitmotiv delle mie vacanze e alla quale ormai mi sono abituta)è in un quartiere carino, tranquillo ma vivace, pieno di ristoranti e posti dove mangiare e abbastanza pulito. Insomma, il rapporto qualità prezzo c'è tutto e ancora una volta sono riuscita a beccare nel segno pur prenotando via internet (Dio benedica Venere.com e i commenti degli utenti).
E' dopo aver disfatto le valigie che abbiamo il nostro primo, terrificante incontro ravvicinato con quello che per tutta la vacanza sarà un po' il nostro nemico: il CIBO.
Ora, io sono una persona che adora andare all'estero, ama sperimentare, otre alle abitudini del posto, anche le varie cucine e i gusti locali. Detesto quegli italiani che vanno all'estero per mangiare nei ristoranti italiani e fare le cose che farebbero in Italia. E sono anche una persona che cerca di adattarsi col mangiare.
Come è risaputo, gli inglesi mangiano male. Quello che forse molti ignorano è QUANTO e IN CHE MODO mangiano male.
Se si vuole, esistono cibi sani (magari un po' più costosi ma poco importa) e non è quello il punto. Verdure ne trovi quante ne vuoi. I problemi in realtà sono due:
PRIMO: mentre noi italiani abbiamo fatto del cibo una cultura e per noi mangiare è un piacere, un'arte, per gli inglesi mangiare è necessità. Si mangia perchè sennò si muore. Quindi ovviano a questa necessità con lo stesso spirito con cui noi italiani che so, andiamo in bagno o ci grattiamo il naso se ci prude o ci addormentiamo se abbiamo sonno: senza entusiasmo. E' questo, credo, che avvilisce di più un italiano a Londra all'ora dei pasti. E' il rilevare spesso la scarsità dei tavoli nei bar o nei ristoranti, il vedere gli inglesi che all'ora di pranzo si comprano un panino inscatolato e se lo divorano in piedi, camminando, senza fermarsi un secondo, il trangugiare a casaccio dove si è. Il sapore ha poca impotanza, l'importante è mangiare velocemente e tornare a fare quello che si stava facendo.
SECONDO: gli inglesi hanno un senso del gusto diversissimo dal nostro, per noi inaccettabile e incomprensibile. ok, passi che non disponendo di un condimento come l'olio devono inventarsi dei modi onde evitare di mangiare l'insalata così come i conigli, però, cazzo, loro mica riescono a stare fermi e lasciare ai cibi il loro sapore naturale...no, porca miseria, ci devono rimettere le mani! Devono condire, è più forte di loro, devono mescolare, non ce la fanno a stare fermi. E' così che noi, da ingenui, ordiniamo un panino al formaggio e ci troviamo davanti un sandwich con dentro formaggio (come promesso) maionese (e ci può stare) e marmellata tutto ben mescolato insieme(eh no eh, cazzo, questo è troppo). Dopo i primi giorni però si impara la lezione: a Londra le cose, e il cibo soprattutto, non sono mai quello che sembrano ma nascondono al loro interno ben altro. Quindi occhio e andateci cauti.
martedì 19 agosto 2008
martedì 12 agosto 2008
Ritorno al passato
Piano piano riprendo le consegne di quello che le ferie avevano lasciato in sospeso.
Ritorno al lavoro, al mio corpo, alla mia casa, alla routine e una dolce malinconia mi pervade.
Riscopro il piacere di portare fuori il cane al tramonto. Arturo è il miglior compagno di viaggio che esista: allegro ed entusiasta, sebbene di tanto in tanto euforico, sa anche essere discreto e silenzioso.
Non so chi dei due abbia condotto l'altro e abbia scelto il percorso odierno. Ancora penso a quello che dovrò fare domani al lavoro e ad altri pensieri grigi e mi rendo conto che siamo nel quartiere dei nonni,il quartiere dell'infanzia. Non ci passo da tanto tempo, credo.
E' semideserto. Alcune finestre hanno dei panni stesi fuori, quasi a chiedere pietà al caldo e alla polvere.
Attraversiamo sul piccolo ponte il rio quasi in secca. Riconosco l'odore dell'acqua stagnante, quell'odore che a volte faceva da cornice nel cortile della nonna sarta, quel fazzoletto di mattonelle e grandi vasi di terriccio con dentro i fondi di caffè "perchè concimano" che, non so perchè, si ostinava a chiamare orto.
Da lì, con una canna da pesca inventata con un bastone della scopa e filze bianche mi improvvisavo pescatrice di rane. Che gioia quando riuscivo, sporgendomi con cautela, a far toccare l'acqua alla mia esca!
Il messaggio nella bottiglia del succo di frutta che un giorno con un'amica lanciammo nelle acque. Si arenò poco dopo. Per molti giorni rimase lì, poi non fu più visto. Chissà se mai sia arrivato da qualche parte. Me lo chiedo oggi, pur senza ricordare cosa vi fosse scritto all'interno, come se quel messaggio fosse questione di vita o di morte.
Passo davanti a quelle che erano le case delle mie amiche d'infanzia. Una, da quanto so, si è trasferita con la famiglia. L'altra non so se abiti più lì. Forse è in vacanza. Forse si è sposata. Chissà.
Dopo la curva, sulla sinistra, ricordo che tanto tempo fa c'era un pugno di negozi: un piccolo bar dimesso che faceva focaccine bisunte, la parrucchiera, una pizzeria dove per la prima volta io e le amiche siamo andate a mangiare una pizza da sole, la sera prima di un primo giorno di scuola alle medie e la cartoleria dove la nonna se ero brava mi portava a comprare le gomme profumate.
Ricordo che ho sempre desiderato, senza mai averla, una gomma a forma di idrante. Ho il suo odore, la sua consistenza scolpiti nella mente.
Il bar è chiuso per ferie, così come la parrucchiera; il ristorante ha cambiato arredamento, nome e gestione. La cartoleria ha chiuso, le tapparelle rotte e polverose; dei fiori dipinti sul vetro di quella che una volta era la vetrina restano come unica testimonianza di una passata attività.
Il parcheggio sul retro della casa dei nonni, dove abbiamo aspettato il camion della nettezza, quando abbiamo svuotato le cantine.
Le mattine d'estate passate in cantina, con nonna che faceva la conserva, nonno che lavorava alle sue invenzioni e mi dava dei pezzetti di legno e della colla per i miei giochi. Il pavimento di terra battuta, la cenere per pulire. Tutta quella roba nella cantina, quanta fatica per svuotarla fra le lacrime! Quando è stato? Neppure due anni fa eppure questo poco tempo pesa sulle mie spalle come un fardello.
La persiana di quella che una volta era la cucina dei nonni pende di sghembo, rotta. Nemmeno due anni, eppure già si notano i segni dell'abbandono.
Anche la bottega accanto, quella che vendeva alimentari, dove la nonna andava col portafogli sotto il braccio e una sporta in finta pelle, ha chiuso i battenti poco prima che morisse mio nonno. Troppi pochi clienti, troppo costosa l'attività. Ricordo ancora come era disposta la roba sugli scaffali, la pasta davanti alla porta, vicino alla cassa e il banco delle verdure in fondo, una biro legata con un elastico allo scaffale per scrivere i prezzi sui cartocci.
Venticinque anni o qualcosa in meno trascorsi come un secolo e i ricordi restano così nitidi!
Con la coda dell'occhio guardo il davanti della casa del nonno giardiniere. Il sempreverde davanti avrebbe bisogno di essere potato. Sono lavori che vanno fatti a settembre, così mi diceva. Sapevo che era settembre perchè si potava il sempreverde e ora chissà chi lo fa al posto di nonno e soprattutto chissà se saprà che va potato a settembre.
Arturo trova qualcosa di interessante da annusare, così mi fermo, giusto in tempo per notare che la finestra della camerina ha le persiane aperte.
Qualcuno vive nella casa, o ci sta lavorando.
La finestra ha ancora le tende di nylon, quelle povere, che imitavano il pizzo, tutte traforate. Ricordo le mie dita paffute che si insinuano tra i trafori e nonna che mi brontola perchè le rovino.
Ho passato interi pomeriggi in quella stanza. Riposavo sul letto con la coperta con le rose, quello sempre pronto a ospitarmi, se avessi voluto dormire da loro. Ma io ero testarda, e preferivo dormire a casa mia, o dalle amiche, se i miei non c'erano.
Agosto 2001 se non vado errata, l'ultima notte che ho dormito lì, quando mi ero appena lasciata dal mio primo ragazzo. Ancora una volta la casa dei nonni, come quando ero piccola, mi ha fornito rifugio dai mali esterni, quella stanza fuori dal tempo, dove una volta, più di venti anni fa, passavo i pomeriggi a osservare il mondo fuori dalla finestra, a contare gli autobus che passavano ogni mezz'ora, quelli grossi, pesanti, che andavano verso la montagna.
Come vorrei rifugiarmi ancora fra quelle mura, suonare il campanello, sentire l'odore di quella casa, e passare anche solo mezz'ora in quella zona franca che era l'appartamento dei nonni. Vedere mio nonno seduto che fa i rebus della settimana enigmistica, la nonna in cucina che lava i piatti.
Una casa dove tutto, da anni, ha una sua precisa collocazione, dove tutto sembrava aspettare solo me.
Ma tutto cambia, tutto è simile ai nostri ricordi eppure allo stesso tempo così diverso.
E' stato come guardare uno dei miei film preferiti, di quelli visti talmente tante volte da imparare a memoria le battute del cast e rendersi conto che gli attori non ci sono, che la trama non c'è più, che c'è solo il set visibile a malapena su uno schermo squarciato.
La gola mi si annoda.
Come sempre il mio fido amico mi salva, tirando il guinzaglio e guardandomi con quel modo tutto suo che ha di guardarmi come a dire "Ebbene?"
"Via, si va a mangiare" gli dico. Immediatamente capisce e si rimette in moto e io dietro di lui.
Mentre ci avviamo verso casa rifletto ancora un poco sui segreti che ci legano a questo mondo, in particolare a cosa resta dell'uomo quando l'uomo se ne va.
Ritorno al lavoro, al mio corpo, alla mia casa, alla routine e una dolce malinconia mi pervade.
Riscopro il piacere di portare fuori il cane al tramonto. Arturo è il miglior compagno di viaggio che esista: allegro ed entusiasta, sebbene di tanto in tanto euforico, sa anche essere discreto e silenzioso.
Non so chi dei due abbia condotto l'altro e abbia scelto il percorso odierno. Ancora penso a quello che dovrò fare domani al lavoro e ad altri pensieri grigi e mi rendo conto che siamo nel quartiere dei nonni,il quartiere dell'infanzia. Non ci passo da tanto tempo, credo.
E' semideserto. Alcune finestre hanno dei panni stesi fuori, quasi a chiedere pietà al caldo e alla polvere.
Attraversiamo sul piccolo ponte il rio quasi in secca. Riconosco l'odore dell'acqua stagnante, quell'odore che a volte faceva da cornice nel cortile della nonna sarta, quel fazzoletto di mattonelle e grandi vasi di terriccio con dentro i fondi di caffè "perchè concimano" che, non so perchè, si ostinava a chiamare orto.
Da lì, con una canna da pesca inventata con un bastone della scopa e filze bianche mi improvvisavo pescatrice di rane. Che gioia quando riuscivo, sporgendomi con cautela, a far toccare l'acqua alla mia esca!
Il messaggio nella bottiglia del succo di frutta che un giorno con un'amica lanciammo nelle acque. Si arenò poco dopo. Per molti giorni rimase lì, poi non fu più visto. Chissà se mai sia arrivato da qualche parte. Me lo chiedo oggi, pur senza ricordare cosa vi fosse scritto all'interno, come se quel messaggio fosse questione di vita o di morte.
Passo davanti a quelle che erano le case delle mie amiche d'infanzia. Una, da quanto so, si è trasferita con la famiglia. L'altra non so se abiti più lì. Forse è in vacanza. Forse si è sposata. Chissà.
Dopo la curva, sulla sinistra, ricordo che tanto tempo fa c'era un pugno di negozi: un piccolo bar dimesso che faceva focaccine bisunte, la parrucchiera, una pizzeria dove per la prima volta io e le amiche siamo andate a mangiare una pizza da sole, la sera prima di un primo giorno di scuola alle medie e la cartoleria dove la nonna se ero brava mi portava a comprare le gomme profumate.
Ricordo che ho sempre desiderato, senza mai averla, una gomma a forma di idrante. Ho il suo odore, la sua consistenza scolpiti nella mente.
Il bar è chiuso per ferie, così come la parrucchiera; il ristorante ha cambiato arredamento, nome e gestione. La cartoleria ha chiuso, le tapparelle rotte e polverose; dei fiori dipinti sul vetro di quella che una volta era la vetrina restano come unica testimonianza di una passata attività.
Il parcheggio sul retro della casa dei nonni, dove abbiamo aspettato il camion della nettezza, quando abbiamo svuotato le cantine.
Le mattine d'estate passate in cantina, con nonna che faceva la conserva, nonno che lavorava alle sue invenzioni e mi dava dei pezzetti di legno e della colla per i miei giochi. Il pavimento di terra battuta, la cenere per pulire. Tutta quella roba nella cantina, quanta fatica per svuotarla fra le lacrime! Quando è stato? Neppure due anni fa eppure questo poco tempo pesa sulle mie spalle come un fardello.
La persiana di quella che una volta era la cucina dei nonni pende di sghembo, rotta. Nemmeno due anni, eppure già si notano i segni dell'abbandono.
Anche la bottega accanto, quella che vendeva alimentari, dove la nonna andava col portafogli sotto il braccio e una sporta in finta pelle, ha chiuso i battenti poco prima che morisse mio nonno. Troppi pochi clienti, troppo costosa l'attività. Ricordo ancora come era disposta la roba sugli scaffali, la pasta davanti alla porta, vicino alla cassa e il banco delle verdure in fondo, una biro legata con un elastico allo scaffale per scrivere i prezzi sui cartocci.
Venticinque anni o qualcosa in meno trascorsi come un secolo e i ricordi restano così nitidi!
Con la coda dell'occhio guardo il davanti della casa del nonno giardiniere. Il sempreverde davanti avrebbe bisogno di essere potato. Sono lavori che vanno fatti a settembre, così mi diceva. Sapevo che era settembre perchè si potava il sempreverde e ora chissà chi lo fa al posto di nonno e soprattutto chissà se saprà che va potato a settembre.
Arturo trova qualcosa di interessante da annusare, così mi fermo, giusto in tempo per notare che la finestra della camerina ha le persiane aperte.
Qualcuno vive nella casa, o ci sta lavorando.
La finestra ha ancora le tende di nylon, quelle povere, che imitavano il pizzo, tutte traforate. Ricordo le mie dita paffute che si insinuano tra i trafori e nonna che mi brontola perchè le rovino.
Ho passato interi pomeriggi in quella stanza. Riposavo sul letto con la coperta con le rose, quello sempre pronto a ospitarmi, se avessi voluto dormire da loro. Ma io ero testarda, e preferivo dormire a casa mia, o dalle amiche, se i miei non c'erano.
Agosto 2001 se non vado errata, l'ultima notte che ho dormito lì, quando mi ero appena lasciata dal mio primo ragazzo. Ancora una volta la casa dei nonni, come quando ero piccola, mi ha fornito rifugio dai mali esterni, quella stanza fuori dal tempo, dove una volta, più di venti anni fa, passavo i pomeriggi a osservare il mondo fuori dalla finestra, a contare gli autobus che passavano ogni mezz'ora, quelli grossi, pesanti, che andavano verso la montagna.
Come vorrei rifugiarmi ancora fra quelle mura, suonare il campanello, sentire l'odore di quella casa, e passare anche solo mezz'ora in quella zona franca che era l'appartamento dei nonni. Vedere mio nonno seduto che fa i rebus della settimana enigmistica, la nonna in cucina che lava i piatti.
Una casa dove tutto, da anni, ha una sua precisa collocazione, dove tutto sembrava aspettare solo me.
Ma tutto cambia, tutto è simile ai nostri ricordi eppure allo stesso tempo così diverso.
E' stato come guardare uno dei miei film preferiti, di quelli visti talmente tante volte da imparare a memoria le battute del cast e rendersi conto che gli attori non ci sono, che la trama non c'è più, che c'è solo il set visibile a malapena su uno schermo squarciato.
La gola mi si annoda.
Come sempre il mio fido amico mi salva, tirando il guinzaglio e guardandomi con quel modo tutto suo che ha di guardarmi come a dire "Ebbene?"
"Via, si va a mangiare" gli dico. Immediatamente capisce e si rimette in moto e io dietro di lui.
Mentre ci avviamo verso casa rifletto ancora un poco sui segreti che ci legano a questo mondo, in particolare a cosa resta dell'uomo quando l'uomo se ne va.
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